La storia di inciviltà che arriva da Milano: “se mettiamo un fiore per ogni morto, diventa una pattumiera”
La storia raccontata oggi dal Corriere della sera lascia davvero tutti senza parole
Le ultime da Milano non ci raccontano una bella vicenda, anzi. Ci sono storie che arrivano come una piccola brezza e altre che si abbattono come un colpo improvviso nel petto. La segnalazione inviata al giornalista Schiavi e pubblicata sul Corriere della Sera appartiene alla seconda categoria: un racconto breve, quasi sussurrato, ma capace di spalancare un varco nella coscienza collettiva di un quartiere e, a giudicare dalle reazioni, ben oltre.
Il punto d’origine è una cicatrice che non si rimargina: la morte di un ragazzo di 15 anni, stroncato da un arresto cardiaco mentre giocava sul campetto da basket di via Dezza, otto anni fa. Da allora, sua madre compie un gesto semplice e luminoso: lascia un girasole sulla rete del campo. Piccolo rito, invisibile ai più, ma capace di trattenere un frammento di luce nel luogo dove la vita del figlio si è interrotta.
Quel girasole – lo racconta la lettrice Ilaria Starz, che ha scritto al Corriere – negli anni è stato più volte strappato, gettato via. Non un atto di vandalismo dettato da rabbia: più banalmente, un gesto di indifferenza. Eppure, proprio l’indifferenza sa fare rumore quando viene illuminata.
La storia di inciviltà che arriva da Milano
La madre, stanca di ritrovare il fiore sparito, aveva lasciato un biglietto: “Non strapparmi”. Una preghiera gentile, in punta di voce. La risposta, scritta a pennarello, è stata un pugno nello stomaco: «Se tutti mettono un fiore per ogni morto, Milano sarebbe una pattumiera».
Parole che scivolano come ghiaccio su una lastra già incrinata. Parole che hanno suscitato immediata indignazione tra i lettori del Corriere, generando un’onda di reazioni che ha colpito per compattezza: difficile, qui, restare neutrali. Schiavi lo sottolinea nel suo commento: per strappare quel fiore bisogna avere “la segatura nel cuore”. Parole tra l’altro, anche sgrammaticate.
Del resto, un girasole non è un rifiuto. È un segno. Una memoria. Un piccolo faro acceso nel punto in cui un’esistenza si è fermata. Spegnerlo significa ferire non solo una madre, ma un’intera comunità.
Quando un fiore diventa simbolo
Il campetto di via Dezza, oggi, potrebbe trasformare quell’episodio in un gesto che ricuce. Schiavi lo auspica apertamente: fare del girasole un simbolo stabile, un segno di vicinanza a quella madre, a quel ragazzo, e alla fragilità di tutti noi.
Perché un fiore, come scrive il giornalista, “è come una stella: può accendere una luce nel buio”. E i quartieri – proprio come le persone – hanno bisogno di luci, non di cancellazioni.
Hanno bisogno di gesti imitabili, capaci di fare argine contro l’arroganza e l’incuria che, quando trovano terreno fertile, diventano costume.
La comunità di Milano che risponde
È interessante notare come, nella stessa pagina di lettere, sia arrivata anche una notizia positiva: i lavori nei giardini Oriana Fallaci sono ripresi, dopo lunghe attese, e i bambini possono tornare a giocare. È un dettaglio che sembra quasi un contrappunto: dove c’è ascolto, qualcosa si muove. Dove si coltiva attenzione, fiorisce cura.
Da un lato un gesto di chiusura, dall’altro un segnale di riparazione.
La città non è mai una sola: vive di tensioni opposte, di ombre e di aperture.
La vicenda del girasole strappato è diventata, quasi suo malgrado, un piccolo specchio della società. Mostra quanto sia facile spezzare, e quanto serva poco per custodire. Mostra che il rispetto non è un obbligo, ma una scelta quotidiana. E che la memoria – anche quella più intima – merita uno spazio.
Forse il campetto di via Dezza a Milano, d’ora in avanti, non sarà più soltanto un campo. Forse diventerà un luogo-simbolo, dove un fiore non è un’ingombro ma una presenza. Dove un quartiere si riconosce non nell’indifferenza, ma nel gesto semplice di lasciar fiorire ciò che altri provano a spegnere. In fondo, a volte basta un girasole per ricordarci chi vogliamo essere.