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Marchionne è morto: le frasi più celebri dell’uomo che salvò la Fiat

Ecco le frasi più celebri di Sergio Marchionne, l'uomo che riuscì a salvare la Fiat: dalle dichiarazioni sulla sua vita a quelle sui lavoratori

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Marchionne è morto e ora in molti lo ricordano per le sue frasi celebri. Diverse sono le sue dichiarazioni che hanno lasciato il segno in questo 14 anni, durante i quali è stato ai vertici di Fca. Una delle frasi che sicuramente un po’ tutti ricorderemo vi è quella legata alla Fiat, verso cui ci ha messo energia. Il manager era molto legato al marchio torinese e su di sé ha sempre sentito una grande responsabilità nei suoi confronti. Non solo, Marchionne ha più volte parlato del suo rapporto con l’Italia, ma anche della sua vita in generale e dei lavoratori.

LE FRASI CELEBRI DI MARCHIONNE: DALLE DICHIARAZIONI SULLA FIAT A QUELLE RIGUARDANTI LA SUA VITA

Sicuramente Marchionne verrà ricordato come l’uomo che è riuscito a salvare la Fiat. All’età di 66 anni, è morto all’ospedale universitario di Zurigo in Svizzero. Dal 27 giugno si trovava ricoverato nella struttura ospedaliera per un intervento alla spalla destra. La sua ultima uscita pubblica era avvenuta due prima del ricovero a Roma. Già quel giorno chi l’ha incontrato aveva notato la sua difficoltà nel parlare. Marchionne aveva deciso di uscire per consegnare una Jeep all’Arma dei carabinieri. Ora questo evento sarà ricordato sicuramente come il suo ultimo saluto. In questi ultimi giorni di vita, il manager è stato assistito da suoi due figli, Alessio Giacomo e Johnatan Tyler, e dalla compagna Manuela. Già lo scorso sabato, i consigli di amministrazione del gruppo avevano nominato i suoi successori. Proprio durante questa decisione, si è capito che le condizioni di salute dell’ex amministratore di Fca erano gravissime.

Per ricordarlo abbiamo scelto di lasciarvi qualche sua frase celebre che riguardano la Fiat, la sua vita in generale, i lavoratori e il suo rapporto con l’Italia.

“In tutta sincerità non riesco a vedere un mio futuro dopo la Fiat. Non è la prima azienda che ho risanato, ma è senza dubbio quella che credo mi stia permettendo di esercitare tutte le mie capacità. Temo di non avere dentro di me l’energia per un altro ciclo di questa intensità”.

“Ho scelto un gruppo di leader e ho cercato con loro di ribaltare gli obiettivi per il 2007. Allora non pensavo di poter arrivare al livello dei migliori concorrenti, mi sarei accontentato della metà classifica. Nessuno ci credeva, pensavano che avessi fumato qualcosa di strano. Oggi posso dire che non mi ha mai sfiorato la tentazione di rinunciare, piuttosto il pensiero che forse non avrei dovuto accettare. Ma era la Fiat, era un’istituzione del paese in cui sono cresciuto”.

“Mi ricordo i primi 60 giorni dopo che ero arrivato qui, nel 2004: giravo tutti gli stabilimenti e poi, quando tornavo a Torino, il sabato e la domenica andavo a Mirafiori, senza nessuno, per vedere quel che volevo io, le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Cose obbrobriose. Ho cambiato tutto: come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e farli vivere in uno stabilimento così degradato”.

“La leadership non è anarchia, in una grande azienda chi comanda è solo. La ‘collective guilt’, la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo”.

“Quando uno si alza, il contegno è molto importante. Bisogna alzarsi dal tavolo facendo valere il punto, ma lasciando capire che alla fine ti risiederai. Ti devi alzare calmo, anche se sei incavolato”.

“Il diritto a guidare l’azienda è un privilegio e come tale è concesso soltanto a coloro che hanno dimostrato o dimostrano il potenziale a essere leader e che producono risultati concreti di prestazioni di business”.

“Questa è la cosa che mi fa incazzare di più. ‘Manager canadese’, è l’ultima di tutta una serie che arriva a dipingermi come anti italiano, pur di minare la mia identità di manager. Io ho il passaporto italiano”.

“L’Abruzzo è la mia terra. Sono nato qui, a Chieti. Qui ho fatto i miei primi otto anni di scuola. E forse, se non fossi emigrato in Canada con la mia famiglia all’età di quattordici anni, avrei frequentato anche questa università. Sono dovuti passare quarant’anni e altre due nazioni, la Francia e la Svizzera, prima che la vita mi riportasse in Italia”.

“Storicamente, in Italia, per accontentare tutti, abbiamo sempre accettato compromessi e mediazioni, e abbiamo esaltato forme di attività corporative che hanno minimizzato il cambiamento. È questo atteggiamento che ha frenato l’Italia nel diventare un Paese competitivo. È questo atteggiamento che rende gli investimenti stranieri in Italia scarsi e rari. È questo atteggiamento che, perlomeno in parte, continua a tenere l’Italia in posizione difensiva e imbarazzata verso il resto dell’Europa”.

“Io sono così. Il tizio con il maglione. Almeno non mi confondo la mattina nell’armadio. I miei maglioni hanno un piccolo tricolore sulla manica. E lo porto con orgoglio, io”.

“Ho grande rispetto per gli operai e ho sempre pensato che le tute blu quasi sempre scontino, senza avere responsabilità, le conseguenze degli errori compiuti dai colletti bianchi”.

“Non è licenziando che si diventa più efficienti. Non è il costo del lavoro di per sé che fa la differenza tra un’azienda competitiva e una relegata ai margini del mercato”.

“Non credo assolutamente alla regola che più sono giovani più sono bravi. Anzi. Sono per il riconoscimento delle capacità delle persone, che abbiano trenta o sessant’anni”.



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