Maturità 2025 L’indignazione è il motore dei social: testo argomentativo con Chat GPT
C'è anche un articolo del Corriere della sera per la maturità 2025: si parla di indignazione sui social, ecco un possibile sviluppo della traccia con Chat GPT
Il mondo social e l’indignazione che monta su tutte le piattaforme come tema da affrontare per la maturità 2025 nel corso della prima prova. E’ stato scelto un testo pubblicato su Sette, Corriere della sera, a firma di Anna Meliadò e Chiara Lalli. Abbiamo provato a chiedere a Chat GPT di sviluppare un testo rispondendo alle richieste fatte dagli esaminatori.
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Maturità 2025: la proposta C2, L’indignazione è il motore dei social
PROPOSTA C2
(Testo tratto da Anna Meliadò e Chiara Lalli, “L’indignazione è il motore del mondo social. Ma serve a qualcosa?”, in Sette, supplemento settimanale del Corriere della Sera, 13 dicembre 2018, pag. 12.)
«L’indignazione è il motore del mondo social. Ma serve a qualcosa?»
Una nuova ricerca, pubblicata su Science, dimostra che questa reazione emotiva accompagna spesso i contenuti condivisi sui social. La tesi è che i messaggi intrisi di indignazione suscitino maggiore attenzione e reazioni più forti, favorendo così la viralità. L’indignazione quindi come forza trainante dell’engagement e della diffusione dei contenuti online. Così, visto che una interazione può spingere l’utente a continuare a pubblicare, chi viene premiato da una valanga di like e commenti sarà portato a reiterare lo stesso comportamento. Il meccanismo, in fondo, è quello del behavioural design.
A partire dai contenuti del testo proposto, traendo spunto dalle tue esperienze, dalle tue conoscenze e dalle tue letture, elabora un testo argomentativo sulla centralità dei social. Puoi articolare il tuo discorso come meglio credi, opportunamente titolarlo e presentarlo con un taglio complessivo che non esprima un’adesione acritica ai contenuti.
Maturità 2025: il testo argomentativo proposto da Chat GPT
Vediamo due proposte diverse elaborate con Chat GPT che potrebbero essere un punto di partenza per lo sviluppo del tema.
Titolo: L’indignazione ai tempi dei social: voce autentica o solo rumore?
Negli ultimi anni, i social network sono diventati lo spazio principale in cui si esprime la nostra indignazione. Basta aprire Instagram, X (ex Twitter) o TikTok per vedere post, storie e video in cui qualcuno denuncia un’ingiustizia, una frase fuori luogo, un comportamento sbagliato. Come affermano Anna Meliadò e Chiara Lalli nell’articolo pubblicato su Sette, l’indignazione è oggi il vero motore delle piattaforme digitali: genera attenzione, engagement e condivisioni. Ma tutto questo serve davvero a qualcosa?
Da una parte, è giusto riconoscere che i social hanno dato voce a chi prima non ce l’aveva. Movimenti importanti come #MeToo o Black Lives Matter sono nati o si sono rafforzati proprio grazie alla possibilità di condividere esperienze, riflessioni e denunce. In questi casi, l’indignazione ha avuto una funzione positiva: ha acceso i riflettori su problemi ignorati, ha messo in discussione abitudini sbagliate e ha portato a cambiamenti concreti. Anche tra noi giovani, c’è più consapevolezza su certi temi proprio perché li abbiamo incontrati online.
Tuttavia, bisogna anche chiedersi quanto di questa indignazione sia autentica e quanto sia, invece, “di tendenza”. Capita spesso che ci si indigni più per ottenere like o visibilità che per un reale coinvolgimento. In questo senso, i social rischiano di trasformare l’indignazione in una reazione superficiale e passeggera, che dura il tempo di una “storia” o di un trend. Inoltre, l’algoritmo premia chi è più estremo, più arrabbiato, più polemico. Così, chi si espone con toni pacati viene ignorato, mentre chi urla ottiene attenzione. Questo può creare un ambiente tossico, dove si discute senza ascoltarsi davvero.
Personalmente, credo che i social possano essere uno strumento utile, ma dobbiamo imparare a usarli in modo più responsabile. Indignarsi è giusto, ma solo se dietro c’è conoscenza, empatia e voglia di capire. Altrimenti diventa solo un rumore di fondo che ci allontana dal vero cambiamento.
In conclusione, i social sono uno specchio del nostro modo di comunicare oggi: immediato, visibile e spesso emotivo. Ma non tutto ciò che fa rumore ha valore. Dovremmo imparare a distinguere tra indignazione vera e indignazione di facciata, tra chi vuole cambiare il mondo e chi vuole solo far parlare di sé. Solo così, anche online, potremo davvero fare la differenza.
Titolo: L’indignazione sui social: cambiamento vero o reazione a vuoto?
Viviamo immersi in un mondo digitale in cui l’indignazione sembra essere diventata la forma più diffusa di partecipazione. Scorriamo i social e troviamo costantemente persone che denunciano, si arrabbiano, accusano. In alcuni casi questa rabbia condivisa ha portato a grandi risultati; in altri, si è esaurita in una polemica sterile, senza conseguenze reali. Ma quindi: indignarsi online serve davvero a qualcosa?
Una risposta univoca non c’è, ma possiamo osservare alcuni esempi significativi. Uno dei casi più emblematici è quello legato alla morte di George Floyd, un cittadino afroamericano ucciso da un agente di polizia nel 2020. Il video della sua morte ha fatto il giro del mondo, generando milioni di condivisioni e alimentando il movimento Black Lives Matter, che ha portato in piazza milioni di persone anche in Europa, Italia compresa. In quel caso, l’indignazione collettiva ha dato il via a un dialogo globale sul razzismo e sulla brutalità della polizia. Non si è trattato solo di un’ondata emotiva: ha prodotto leggi, cambi di atteggiamento, e ha scosso l’opinione pubblica.
Tuttavia, ci sono anche episodi in cui l’indignazione online ha avuto un effetto contrario, persino dannoso. Penso ad esempio al recente caso di una donna americana, Shiloh Hendrix, che è diventata virale per aver pronunciato insulti razzisti. Mentre moltissimi utenti l’hanno condannata, alcuni gruppi estremisti l’hanno trasformata in una “vittima” e hanno raccolto per lei più di 700.000 dollari tramite campagne di crowdfunding. In quel caso, la rabbia della rete non ha isolato il comportamento sbagliato: anzi, ha dato visibilità e persino profitto a chi lo aveva commesso.
Anche in Italia assistiamo continuamente a forme di indignazione che diventano tendenze. Ogni settimana un personaggio pubblico, un influencer o un politico finisce sotto accusa per una frase o un gesto ritenuto offensivo. Spesso però si tratta di polemiche che si spengono nel giro di pochi giorni, senza lasciare un vero impatto. L’indignazione diventa così un riflesso automatico, qualcosa che si prova e si esprime per sentirsi parte di un gruppo, più che per cambiare davvero le cose. E’ successo ad esempio anche con il Pandoro Gate, che ha visto Chiara Ferragni protagonista. In questo caso, l’indignazione sui social e le inchieste portate avanti dai giornalisti, sono anche servite però a mettere l’influencer di fronte alle sue responsabilità: dovrà affrontare un processo per truffa.
E poi ci sono casi che toccano profondamente la coscienza, ma che sui social sembrano sparire troppo in fretta. Mi riferisco, ad esempio, a quanto sta succedendo in Palestina, dove la popolazione civile vive da mesi in condizioni disumane, sotto bombardamenti continui, senza accesso a cure mediche, cibo o acqua. Su Instagram e TikTok, molti giovani hanno condiviso testimonianze, articoli, appelli. Ma dopo l’ondata iniziale di indignazione, tutto è tornato come prima nei feed di molti. È il segno più evidente di quanto i social ci rendano spettatori emotivamente coinvolti ma spesso incapaci di trasformare quel sentimento in pressione reale o in cambiamento duraturo. Eppure, davanti a certe tragedie, la nostra indignazione dovrebbe diventare qualcosa di più: conoscenza, solidarietà concreta, pressione politica.
Come studente, ma soprattutto come giovane che vive costantemente immerso nei social, mi chiedo: indignarsi è sufficiente? Probabilmente no. Serve comprendere, riflettere e soprattutto agire anche fuori dalla rete. L’indignazione può essere il punto di partenza, ma non può diventare un alibi per sostituire l’impegno vero con un semplice post o una storia su Instagram.
Possiamo dunque dire che i social hanno trasformato il modo in cui esprimiamo le emozioni collettive. Hanno dato voce a tanti e permesso di far emergere problemi prima ignorati. Ma se vogliamo che l’indignazione online non si riduca a uno sfogo sterile, dobbiamo imparare a usarla con consapevolezza. Non tutto ciò che fa rumore ha valore, e non ogni “trending topic” è davvero importante. Solo se impariamo a distinguere tra indignazione utile e indignazione di facciata, potremo davvero contribuire a un cambiamento.
Queste due possibili proposte per il testo argomentativo della maturità 2025 sviluppate con Chat GPT.